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S O R O R I D A D

  • Immagine del redattore: aspasiatutteledonn
    aspasiatutteledonn
  • 12 giu
  • Tempo di lettura: 6 min

Ogni donna è un mondo. Ogni mondo merita di essere raccontato 

 

 

È la prima volta che ti scrivo da quando, quasi tre mesi fa, sono partita per il mio viaggio di sola andata attraverso l’Asia. Con uno zaino in spalla e una promessa: essere testimone delle voci e delle storie di donne dimenticate dal mondo. Lo so, avrei dovuto scriverti prima. Ma è il viaggio, ormai, a scandire il tempo e le decisioni.

Il mio cammino è iniziato a Bangkok, capitale della Thailandia, e da lì ho incontrato moltissime donne che, senza nemmeno saperlo, hanno costruito dentro di me bagagli insormontabili di consapevolezza. E ora voglio raccontartele. Lo faccio attraverso i primi quattro episodi di SORORIDAD, la docuserie (sì, quella a cui hai dato il nome!) che sto costruendo passo dopo passo, lungo questo percorso in balia del viaggio. Puoi guardarli gratuitamente su YouTube.

 

Ho una telecamera.

Un microfono.

Un taccuino con domande scritte poche ore prima dell’intervista.

E la voglia — stremata, urgente — di conoscere la storia che mi siede davanti.

Perché so che ogni voce fa la differenza.

 

Alle donne non è sempre permesso parlare, esserci, vivere, abitare luoghi, corpi con le stesse opportunità e gli stessi privilegi degli uomini. Questa è la trama di SORORIDAD. Questo è il suo ritmo lento. Nasce, cresce e si sviluppa nel tempo e nello spazio attraverso le loro voci, le voci delle donne che sono protagoniste di questo mio vagare.

 

Grazie a loro sento, finalmente, che la mia vita, questo viaggio, ha un senso.

La prima donna che ha inaugurato questo lungo cammino di voci mi ha parlato di una spiritualità e di una fede capaci di abbattere le barriere patriarcali del monachesimo, attraverso la devozione, lo studio delle sacre scritture e la loro messa in pratica nei gesti quotidiani, nella resistenza pacifica.

Essere al cospetto della prima donna ordinata bhikkhuni nel lignaggio Theravāda in Thailandia mi ha fatta sentire spesso agitata. Agitata mentre pronunciavo le domande in inglese, mentre cercavo i suoi occhi con rispetto, mentre mi assicuravo di essere seduta con il giusto garbo. E agitata, soprattutto, quando la videocamera si è spenta all’improvviso con un messaggio di errore. Abbiamo dovuto rifare tutta l’intervista da capo. L’unica cosa che la Venerabile Dhammananda mi ha detto è stata: “Fai un respiro profondo, andrà tutto bene”.

 

La resistenza silenziosa, la preghiera devota, i passi delle donne bhikkhuni in quel tempio di pace, nel cuore di una Bangkok agitata e verace, mi hanno regalato un momento di immensa quiete. Una quiete che custodirò per sempre.

Se vuoi ascoltare la sua storia e conoscere la battaglia che ogni giorno porta avanti affinchè anche le donne possano essere riconosciute ufficialmente come monache in Thailandia, guarda l’intervista qui: 



Ho viaggiato per quasi due mesi in Thailandia, eppure credo di non aver scorto neanche un granello di tutto ciò che questo paese nasconde e al contempo rivela al mondo. Il nord, in particolare, mi ha raccontato una storia migratoria di cui sapevo ben poco. Essere invisibili: è ciò che accade alle persone apolidi. Quelle che migrano in cerca di una vita migliore, ma che poi non vengono riconosciute né per ciò che erano, né per ciò che sono diventate. Senza cittadinanza si fluttua nel mondo come fantasmi, invisibili agli occhi delle altre persone e della giurisdizione internazionale.

È questa l’esistenza delle donne Karen nei villaggi attorno a Chiang Mai, spesso strumentalizzate come attrazione turistica da chi sfrutta la loro immagine, ma non lotta per la loro identità. È anche la realtà delle bambine migrate dalla Birmania, che vivono nel Triangolo d’Oro.

 

Questa è la storia di Mii: una ragazza nata senza futuro, senza accesso all’istruzione, ma con una voglia inesauribile di cambiare il proprio destino. Oggi Mii lavora per l’associazione che anni prima le ha cambiato la vita: Friends of Thai Daughters. Grazie all’intervento di persone che hanno creduto in lei, Mii è potuta andare a scuola, emanciparsi e scoprire il “mondo delle opportunità”. Ora aiuta altre bambine e ragazze come lei, che non avevano gli strumenti per capire che il vero potere è la conoscenza. L’istruzione può davvero cambiare la vita. Nel Triangolo d’Oro le bambine apolidi sono le più vulnerabili alla tratta di esseri umani. Senza documenti, diventano ancora più invisibili, ancora più esposte.

 

Per ascoltare la storia di Mii e comprendere cosa accade ogni giorno a tante di loro, guarda la puntata di SORORIDAD: 

Quando raggiungi il Mekong, ti accorgi che non è solo un fiume: è un racconto liquido, profondo, antico. Il suo fascino è senza tempo, le sue correnti sono memorie in movimento. Navigarci sopra è come trattenere il respiro in una bolla sospesa, dove le storie scorrono sotto l’acqua e si dissolvono nei riflessi del sole.

Ma la sua acqua è torbida. Come le vite di chi su quel fiume ha trafficato (e traffica ancora oggi) corpi, armi, silenzi. Il Mekong nasce per generare vita e fertilità, ma viene violato per trasportare sogni spezzati, promesse infrante e identità negate. Ti conduce in Laos, una terra di cui il mondo non parla mai. Il paese più bombardato della storia dell’umanità. Qui i volti si fanno scuri, gli occhi ti trapassano. Qui le persone sanno che il mondo può non essere un posto giusto. Ma sono le donne che, ancora una volta, sanno tenere accesa la speranza.

Lo fanno insieme, lo fanno nella sorellanza. Come al Lao Disabled Women’s Development Centre, fondato da donne disabili per donne disabili. Perché la disabilità non è una mancanza individuale, ma un fallimento collettivo di chi esclude. Le donne di questo centro mi hanno accolta con sorrisi pieni e mani timide. Poi si sono organizzate: hanno scelto insieme chi avrebbe parlato, hanno tradotto le domande per chi l’inglese non lo conosce ancora, hanno trovato uno spazio e il coraggio per raccontarsi. E così io ho potuto fare quello che sento più mio: ascoltare, registrare, raccontare.

 

Non renderle invisibili, la disabilità ci riguarda tutti, tutte e tuttu. Ascolta le loro storie:


Ora sono in Vietnam.

Sono entrata in questo paese con aspettative alte, quasi esigenti. La storia delle donne vietnamite è intessuta di resistenza, coraggio e conquiste. Diritti riconosciuti qui quando, in Italia, si cominciava appena a intuire che bisognava reclamarli. Il mio arrivo è stato turbolento: un minivan sgangherato, 24 ore di curve, buche, montagne. Ma sono arrivata al nord. Dove le vette sfiorano il cielo e la nebbia inghiotte le risaie come in un sogno. Piove ogni giorno, la terra è fangosa e fertile, la bellezza cruda.

A Sapa, le bambine Hmong indossano abiti tradizionali e ti guardano dritte negli occhi per chiederti soldi, consapevoli che per molti occidentali il portafoglio pesa più dello sguardo. Il monte Fansipan, il più alto dell’Indocina, veglia silenzioso sui villaggi nascosti dietro sentieri scivolosi e creste aguzze. In uno di questi villaggi, Lao Chai, ho incontrato una donna Hmong. Volevo ascoltarla. Volevo porle quelle domande che tu e chi mi segue su Instagram mi avete affidato, parole cariche di senso, di desideri, di connessioni.

Ma mi sono scontrata con un ostacolo profondo: la presunzione (tutta occidentale) di credere che i concetti che usiamo per raccontarci siano universali. La guida tentava di tradurre. Ma scuoteva la testa: “Questo concetto esiste in vietnamita, ma non nella lingua Hmong. Non so come spiegarglielo”. E allora ho fatto l’unica cosa sensata: ho lasciato che fosse lei a parlare, a modo suo.

Le ho chiesto semplicemente, se voleva, di raccontarmi la sua storia.

E quella storia, detta a frammenti, con gesti, occhi, sorrisi, traduzioni zoppicanti e risate, è arrivata comunque e tu la puoi ascoltare e guardare qui:


Quali saranno le prossime interviste, le prossime storie che vi racconterò?

La verità è che non lo so ancora.

Come ti ho già detto, è il viaggio a scandire il tempo, i luoghi, le decisioni. Ci sono tante storie che vorrei portarti, donne che sto cercando, enti e realtà di cui mi documento e che contatto ogni giorno. Ma non tutto può essere programmato: alcune storie arrivano da sole, ti scelgono, ti chiamano.

Ed è lì che SORORIDAD prende forma. Nel mistero dell’incontro. Nella sincronia tra chi parla e chi ascolta. Nell’urgenza di dire e nel rispetto del silenzio. È il ritmo del viaggio, ed è il cuore stesso di SORORIDAD. Io sarò dove dovrò essere. E insieme, ascolteremo la storia che è pronta per essere raccontata.

Ma tu resta.

Resta con me, per scoprire quale donna non ha ancora avuto voce.

E insieme, prova a immaginare che sì, possiamo dargliela. 

 
 
 

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